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Covid-19, la testimonianza di una famiglia sangiovannese in Lombardia



Abbiamo incontrato virtualmente una famiglia originaria di San Giovanni a Piro che vive e lavora in Lombardia, tra Bergamo e Milano.

Vi presentiamo prima le toccanti testimonianze di due compaesani che lavorano nel Bergamasco, una zona tragicamente colpita dal Covid-19.

Vedere i militari trasportare bare dalla bergamasca ad altre regioni di Italia, per la cremazione dei defunti, perché in Lombardia non c’era più spazio, è stata una delle immagini più strazianti di questa immane tragedia data dalla pandemia causata dal Covid-19. A Nembro le campane a morto non suonano più. Per chi ha perso il padre, un amico o un conoscente a cui non è stato possibile nemmeno dare l’addio, sarebbe troppo. Anche le ambulanze entrano nella cittadina senza le sirene. In silenzio. Come in silenzio scivolano via i carri funebri col proprio carico di vita spezzata dal Covid-19. Nel paese accanto, Alzano Lombardo, ci sono stati 50 decessi in 20 giorni. “Ormai contiamo solo i morti”, dice il sindaco, Camillo Bertocchi. Alzano e Nembro sono i due comuni del focolaio bergamasco, l’area d’Italia più colpita dal Coronavirus e da cui, verosimilmente, si è diffusa la malattia nel resto della provincia. Qui, in questo fazzoletto di terra della Bassa Valle Seriana, ci sono quasi 400 aziende per un totale di 3.700 dipendenti e 680 milioni di euro all’anno di fatturato (dati Confindustria). A Bergamo, da oramai 23 anni, lavora, come capo della Polizia Stradale, il nostro compaesano Delfino Magliano, e da qualche anno anche suo genero, sempre nostro compaesano, Alessandro Montano, come vigile urbano. Li abbiamo raggiunti attraverso il cellulare per conoscere la situazione lì, ancora più approfonditamente.

Bergamo è la provincia più colpita da questa pandemia. Come state affrontando l’emergenza nelle strade?

Stiamo affrontando l’emergenza effettuando tanti controlli in strada, non solo per far rispettare decreti e ordinanze ma anche per offrire ai cittadini aiuto, consigli e spesso rassicurazioni. In questo momento così particolare più che servizio di Polizia svolgiamo servizio di Protezione Civile; ad esempio, aiutiamo le persone sole in difficoltà anche fornendo loro i beni di cui hanno bisogno (tra cui il ritiro delle pensioni) o consegniamo vestiti e oggetti alle persone ricoverate le cui famiglie sono in quarantena. Mai come ora lavoriamo in stretta collaborazione con tutte le altre forze dell’ordine, le ambulanze e gli ospedali. L’unico consiglio che si può dare in questo periodo è quello di rimanere a casa; anche se è una fatica non trascurabile, dobbiamo capire che la salute e il bene di tutta la popolazione è nelle nostre mani ed è un dovere di ogni singola persona.

Cosa state riscontrando nella popolazione?

All’inizio non è stato facile affrontare le persone, perché molti trascuravano il problema e nessuno immaginava l’impatto che poi la pandemia ha avuto nelle nostre vite.  Poi, con l’inizio e l’aumento esponenziale dei decessi, specialmente nella Bergamasca dove lavoriamo, le persone hanno cominciato a capire e ad avere paura e a rispettare più scrupolosamente le disposizioni. Ora il lutto per i numerosi concittadini persi ha segnato tutti. Dobbiamo però considerare che nelle prime fasi non solo i cittadini hanno sottovalutato la gravità di quello che stava accadendo ma anche i provvedimenti sono stati poco incisivi rispetto a quelli adottati nelle zone dei primi focolai e questo ha inciso irreparabilmente sul numero dei contagi.

Quello che ci arriva dai mezzi di comunicazione è quello che sta accadendo o ci viene mostrata una minima parte?

Le notizie arrivano, ma spesso ci si focalizza solo sui numeri. Le persone che stanno morendo sono tantissime sì, ma non sono solo un numero da aggiungere al totale. Sono mariti, mogli, padri, madri, persone che vanno via in ambulanza per poi non tornare più a casa, non vedono più i loro cari che non possono nemmeno accompagnarli nell’ultimo saluto perché isolati in quarantena. Questa è tra le cose più strazianti.

Quanto è stato straziante vedere portar via tutte quelle bare dal cimitero di Bergamo?

Delfino: Lavoro a Bergamo da 23 anni, ho fatto infiniti servizi di viabilità, tanto ordine pubblico, la sicurezza allo stadio, la gestione di numerose manifestazioni e anche momenti molto emozionanti come la visita delle massime autorità dello Stato. In questi anni dunque non ho potuto che imparare ad amare questa città. Per questa ragione è straziante per me lavorare per fare viabilità a carri funebri e a file di camion militari pieni di bare. La città è deserta e il silenzio assordante è interrotto solo dal suono continuo di sirene di ambulanze e rintocchi di campane a lutto. Uno dei momenti più tristi che non potrò mai dimenticare è la visione di oltre 150 bare all’interno della chiesa del cimitero monumentale.

Abbiamo letto che Delfino conosceva il sacerdote che ha deciso di lasciare il ventilatore per un paziente più giovane. Un ricordo a riguardo. 

Ho conosciuto Don Giuseppe Berardelli quando a Bergamo sono state portate in visita le spoglie del Santo Papa Giovanni XXIII. In quella circostanza così emozionante ho avuto modo di apprezzare subito la sua umanità e il suo altruismo; la particolarità che oggi mi fa riflettere ancor di più è che il nostro incontro è avvenuto proprio in una delle chiese che ora, purtroppo, ospita decine di bare.

Un pensiero riguardo a quanto sta accadendo.

Alessandro: Questa pandemia ha sconvolto le vite di tutti e anche il lavoro di tutti noi. Sono passato dal servizio davanti alle scuole, dai controlli delle infrazioni, ecc. a un lavoro surreale, che non avrei mai immaginato di dover fare. Chiudere le piste ciclabili, vietare alle persone di muoversi, limitare gli accessi ai cimiteri.  Racconto solo uno dei tanti episodi accaduti in queste settimane che mi ha segnato moltissimo. Quando ci sono delle tumulazioni riceviamo una comunicazione dall’ufficio di stato civile e ci rechiamo in cimitero per controllare; qualche giorno fa al mio arrivo, accanto a una delle tante bare c’era un’anziana signora sola e disperata che piangeva suo figlio, senza poter essere confortata da nessuno.  Penso che tutti sappiamo cosa vuol dire perdere una persona cara, riflettiamoci quando in tutte le conferenze stampa sentiamo parlare di numeri con tanta facilità.

Delfino: Penso che in questi tanti anni di lavoro ho visto di tutto ma non avrei mai immaginato di dover vivere un’esperienza così triste e inverosimile. Qualche sera fa, durante il servizio di controllo in centro città, mi sono dovuto fermare perché la vista di chilometri e chilometri di strade deserte mi ha commosso e segnato per sempre. Così come non posso fare a meno di pensare a tante persone che conoscevo e a tanti familiari di colleghi che non ci sono più. Spero presto di poter tornare a svolgere il lavoro che amo in una città viva, con la consapevolezza però che sarà sempre segnata da questo periodo difficile.

Maria Magliano, infermiera a Milano, racconta la sua esperienza in reparto, in tempi di emergenza, e la nostalgia verso il suo paese, San Giovanni a Piro.

Come stai vivendo nel tuo reparto tutto questo? E come, se si è trasformato, il tuo lavoro e il carico di lavoro dall’arrivo di questa pandemia?

Io lavoro in terapia intensiva neonatale alla Macedonio Melloni di Milano. Uno dei pochi reparti, per ovvie ragioni, a non essere trasformato in un reparto COVID; nonostante questa pandemia abbia travolto le nostre vite e le nostre abitudini negli ospedali ci sono attività e reparti impossibili da fermare. Tra le tante cose, non si fermano le nascite, non si ferma l’assistenza ai piccoli nati prematuri e a tutti i neonati che abbiano bisogno di assistenza. Ovviamente il nostro lavoro è cambiato. Non solo perché abbiamo posti di isolamento per bambini che provengono da casa ma anche perché ovviamente non esistono, in questo periodo, ospedali in cui non ci siano pazienti COVID. Tutto è nuovo per noi, come gestire l’isolamento delle mamme che vengono a partorire, come comportarsi con i piccoli, come proteggere gli operatori. Tutto difficile da capire e gestire e questo genera confusione e paure sia tra gli operatori che tra i genitori che stanno già vivendo una fase molto delicata della vita.

Puoi riportarci notizie di colleghi che lavorano in reparti Covid?

Molti miei colleghi che lavorano nei reparti COVID stanno raccontando dettagliatamente come stanno vivendo; il carico di lavoro è intensissimo. Penso che grazie a tutti i canali di informazione siamo ben consapevoli di come stiano andando le cose; non mi permetto di aggiungere altro ai loro racconti, vorrei solo invitare tutti a pensare che oltre al fatto che un infermiere deve gestire 10/20 pazienti in determinate condizioni, quell’infermiere è un uomo, una donna, con le proprie paure e le proprie fragilità. La scorsa settimana anche 4 colleghe del mio reparto sono state spostate in un reparto COVID di un altro ospedale dell’azienda; svuotare l’armadietto con una di loro, che oltre ad essere una collega è una carissima amica, è stato un momento che porterò per sempre con me. Avrei voluto abbracciarla forte, non aggiungo altro…

Il tuo lavoro e quello dei tuoi colleghi solo ora viene largamente apprezzato, vorresti dire qualcosa riguardo a questo aspetto.

Sì, voglio dire che alla maggior parte di noi non interessa essere definiti eroi. Perché non possiamo nascondere che per anni, per molti, siamo stati solo “quelli che lavano le persone, fanno le punture, danno le pastiglie”. A me non interessava, perché sono fiera del lavoro che faccio dal primo giorno che ho messo piede in università. Ora l’attenzione è posta su di noi, quindi ci si ricorda che abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa, che dobbiamo studiare per anni, tenerci sempre aggiornati, che abbiamo tantissime responsabilità, che lavoriamo 365 giorni all’anno in tutte le festività, di notte ecc. Mi dispiace moltissimo che ci sia voluta una pandemia per riconoscere la nostra professione. Solo a titolo di esempio: ci sono colleghe con mariti medici o infermieri o poliziotti, con figli a casa da settimane, senza l’aiuto di nessuno, che nonostante questo non hanno mai abbandonato il lavoro e che tornano a casa a studiare le equazioni o la prima guerra mondiale cercando di non far capire ai bambini quanto si è stanchi, quanta paura si ha.

Nel mio caso, quando ho davanti una mamma in lacrime di una piccola tanto desiderata ma “nata troppo presto e nel momento più sbagliato”, non posso far altro che mettere in un angolo tutto quello che provo per dare forza a questa mamma e per assistere con la mia professionalità, al meglio, la bambina.

Ma quando poi mi fermo, ecco che spesso crollo.. mi chiedo quando potrò tornare a San Giovanni per riabbracciare nonna e tutti i parenti e gli amici, quando potrò smettere di avere paura per i miei genitori, per mio marito, per tutti i colleghi e amici che continuano ad andare a lavoro, quando potrò tornare a viaggiare, quando con le mie colleghe potremo andare a mangiare una pizza dopo un turno difficile…e molto altro.

In questi giorni, quando arrivo a lavoro di cattivo umore, perché non riesco a credere a quello che stiamo vivendo, mi manca tutto e la tangenziale milanese deserta mi angoscia… ecco che la forza me la dà lei, la piccola M., 600 gr di forza e tenacia, di Vita e di speranza.

Colgo l’occasione per ringraziare tutti di vero cuore per la vicinanza, le preghiere e l’affetto dimostrato in questo periodo difficile.

A cura di Annamaria Mandara

Nell'immagine in basso, Maria al lavoro

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