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San Giovanni a Piro nel Risorgimento, seconda parte



San Giovanni a Piro nel Risorgimento, a cura di Franco Cariello

Seconda parte

Le leggi bonapartiste sull’eversione della feudalità del 1808 avevano alimentato la grande speranza delle masse contadine che aspiravano ad avere un proprio pezzo di terra da coltivare e a svincolarsi dalle servitù feudali. Ma, in molti paesi, lo smembramento dei feudi vide un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini perché, insieme ai feudi, furono aboliti anche gli usi civici che vi gravavano. E gli usi civici del legnatico, del ghiandatico, dell’acquatico, del pascolo erano essenziali per la vita dei contadini che vedevano sfumare l’antico istituto dell’uso civico creato nel ‘400 dagli aragonesi a sostegno dei contadini più poveri. I moti del 1820 e 21 nelle nostre zone furono essenzialmente rivolte contadine per l’assegnazione delle terre e non certo per la Costituzione. I nostri contadini chiedevano pane, condizioni di vita più umane, ma non certamente  la Costituzione. A Napoli e nei centri più importanti, però, l’ideale costituzionale certamente ebbe la prevalenza su ogni altra motivazione. La Carboneria ebbe un ruolo dirigente nella rivolta e seppe incanalare l’intera protesta del Regno nell’alveo della richiesta costituzionale. Nel nostro Comune la Carboneria era presente con la Vendita denominata “Quinta Bulgara” e a dirigerla era preposto Michele Solimene il quale partecipò alla Gran Dieta di Salerno del 31 luglio del 1820 dove si organizzò la rivolta su tutto il territorio del Regno.. Nella nostra zona si segnalano imponenti rivolte di contadini a Novi, Vallo della Lucania, Camerota, Roccagloriosa.  A S. Gio a Piro, invece, non ho trovato neppure un solo atto di protesta o di ribellione. Ho cercato di dare una spiegazione a questo fatto, ho letto decine di atti notarili di quel periodo alla ricerca di qualche indizio, poi sono giunto ad una conclusione che credo possa essere abbastanza plausibile. Abbiamo detto che la rivolta del 1820-21 fu essenzialmente rivolta di contadini per la spartizione delle terre feudali e per la disastrosa abolizione degli usi civici. A S. Giov a Piro la stragrande maggioranza dei terreni era di proprietà dell’Abbadia Basiliana (ben 1222 ) e questi terreni da tre secoli erano posseduti da coltivatori locali con contratti di enfiteusi, ma soprattutto erano terreni non gravati di usi civici in quanto questa enorme massa fondiaria non era di natura feudale ma di origine burgensatica, cioè era nella piena e libera disponibilità del Monastero Basiliano. Infatti nel nostro Comune gli usi civici erano, e lo sono ancora oggi, incardinati esclusivamente al demanio comunale. Quindi non ci furono, e non c’era ragione per essercene, lotte collettive per l’assegnazione delle terre in quanto la Commissione Feudale, istituita dal Governo bonapartista nel 1808, aveva già assegnato i terreni dell’Abbadia a quei contadini che potevano dimostrarne il possesso da lungo tempo. Ho trovato, invece, documentazione di liti giudiziarie fra i vari coltivatori i quali vantavano medesimi titoli di possesso sullo stesso terreno, ma mai ho trovato proteste contro lo Stato. Dalla lettura di numerosi rogiti ho potuto constatare che questi terreni furono assegnati a fronte di modesti riscatti monetari, a volte con pagamenti  a termine, con fideiussioni anche di beni in natura. Ho letto, per esempio, una fideiussione presentata alla Camera della Sommaria di Napoli  da un acquirente di S. Giovanni a Piro che compra un terreno in località Ciorlia, di proprietà dei monaci basiliani, e nella fideiussione sottopone a pegno l’argenteria di famiglia, elencando minuziosamente forchette, cucchiaini, coltelli, candelabri ed altri oggetti di valore. A dimostrazione di questa mia tesi viene anche il Cirelli il quale nella sua monumentale opera in otto volumi pubblicata nel 1854 intitolata “Il Regno delle due Sicilie”, alla sezione dedicata a S. Giov a Piro così scrive: I poderi essendo il solo patrimonio dal quale possa emergere ricchezza, in quello che non vi ha povero che non abbia la sua spanna di terreno al sole.” La mancata partecipazione di S Giov a Piro a questi moti non fu, quindi, un’affermazione di lealtà borbonica, ma fu invece la logica conseguenza della mancanza totale di una motivazione economica.

L’assegnazione delle terre fu davvero lo stimolo più grande e più efficace per il coinvolgimento delle masse contadine, e fu argomento di persuasione e di promesse fino al periodo fascista. Pensate che dopo pochi giorni dall’unità d’Italia, a marzo 1861, dopo quaranta anni quindi dai moti del 20, l’Intendente di Lagonegro  vide circondata la sua casa da oltre mille contadini che gridavano “W l’Italia, W Vittorio Emanuele, ma adesso vogliamo le terre che Garibaldi ci ha promesso, che Voi ci avete promesso durante il plebiscito, quelle terre che sono state espropriate alla feudalità nel 1808 e che adesso sono nel patrimonio del Comune” . Questo aspetto delle rivolte contadine  verrà poi analizzato magistralmente da Antonio Gramsci nel suo famoso saggio “Il Risorgimento” facendolo giungere alla conclusione che quella fu un’occasione mancata e sprecata per una grande rivoluzione agraria e per affrancare definitivamentei contadini dal giogo padronale.                                                                     

Quel momento e quei fatti segnano, a mio giudizio,  la nascita della piccola borghesia agraria meridionale che segnerà tutta la politica postunitaria e soprattutto il ventennio fascista.

E siamo al 1828, alla rivolta che vede protagonista Bosco, che vede una posizione assolutamente ambigua di S. Giov a Piro, e che ci fa conoscere una serie molto variegata di personaggi.

Dicevo all’inizio di questa mio scritto che mi sarei soffermato su fatti e personaggi poco noti. Quanto accadde nel 1828, invece, è arcinoto, è stato raccontato in numerose pubblicazioni, e credo che una trattazione in questa sede necessiterebbe di tanto, tantissimo spazio, ed è per questo che farò solo qualche osservazione sui fatti di quei giorni tragici. Nel ‘28 siamo di fronte ad una rivolta che ancora è tutta dentro al meccanismo costituzionale, almeno nelle intenzioni dei suoi dirigenti politici, tant’è che l’unico documento politico, il famoso proclama di Palinuro del 28 giugno 1828, si conclude con il grido “Viva Dio, Viva il Nostro Re, Viva la Costituzione di Francia”. Non era stato sufficiente, quindi, inneggiare a Francesco I di Borbone per evitare la reazione: il solo pronunciare la parola Francia evocava nella mente del Sovrano lo sferragliare di ghigliottine e la testa rotolante dell’amata zia Mariantonietta. Sui fatti di questa rivolta, che si conclude con inaudita barbarie, ha svolto un pregevolissimo lavoro Biagio Palumbo con un libro dedicato completamente alla rivolta del 1828, pubblicato nell’estate del 2018. Svincolatosi una volta per tutte dalle tesi del Mazziotti, grazie ad un meticoloso e lodevole lavoro di ricerca svolto nei polverosi archivi di Napoi e di Salerno, rende giustizia e onore alle tante vittime di quelle tragiche giornate. 

Continua...

Clicca qui per leggere la prima parte: 

SAN GIOVANNI A PIRO NEL RISORGIMENTO, PRIMA PARTE

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